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Nella iuta il viaggio del cacao dall’Africa occidentale ai porti liguri

Come, quando e dove (ovvero in quali porti) arriva il cacao che viene utilizzato ogni anno per la produzione delle industrie dolciarie italiane? A raccontare il viaggio di questa particolare merce è un contributo a cura di Andrea Olivieri, Transport Logistic Planner di Mto (parte del gruppo genovese Finsea), ultima puntata di una ‘serie’ che […]

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3 Marzo 2021
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Come, quando e dove (ovvero in quali porti) arriva il cacao che viene utilizzato ogni anno per la produzione delle industrie dolciarie italiane?

A raccontare il viaggio di questa particolare merce è un contributo a cura di Andrea Olivieri, Transport Logistic Planner di Mto (parte del gruppo genovese Finsea), ultima puntata di una ‘serie’ che la società ha dedicato al trasporto verso la destinazione finale di altri tipi di commodity, ad esempio i fertilizzanti esportati dall’Italia principalmente verso il Sud Est asiatico.

Innanzitutto, la quantità. Sono “circa 110mila” – spiega infatti Olivieri – le tonnellate di fave di cacao che ogni anno sbarcano nei porti italiani, in primis quello di Genova, seguito da La Spezia e Vado Ligure. Per il 90% la merce “proviene dal West Africa, più precisamente dal Ghana e dalla Costa D’Avorio, con una piccola percentuale di origine nigeriana ed ecuadoriana”. I frutti destinati al mercato italiano in particolare arrivano tra dicembre e maggio, stipati in sacchi di iuta da 60 kg l’uno, per un totale di circa 4.500 container in ognuno dei quali trovano spazio circa 25 tonnellate di carico.

Partendo dall’origine, le pigne di cacao vengono raccolte nelle fazendas, di proprietà direttamente delle industrie dolciarie o dei trader, oppure dai consorzi locali, dove convergono i raccolti dei lavoratori autoctoni. I frutti delle piante di cacao, simili a cocchi allunganti, vengono portati in spiaggia e ‘spignati’: in altre parole i semi, ovvero le fave, che contengono l’essenza del cacao, rimangono alcuni giorni in essicazione prima di essere messi dentro i sacchi per il loro viaggio oltre mare.

Quella nei sacchi in iuta, precisa Olivieri, è una modalità di trasporto che è immutata da almeno 25 anni a questa parte, poiché questo tipo di tessuto garantisce una traspirazione costante che serve a proteggere le fave dall’umidità. Per la stessa ragione, i container in cui i sacchi sono disposti vengono allestiti anche con ‘fardaggi’: “Detta in maniera semplice, si tratta di cartoni che fasciano i sacchi, soprattutto quelli a contatto con le porte e le pareti dove si crea la maggior parte della condensa, anche dovuta all’escursione termica tra le temperature delle zone di carico e quelle delle zone di sbarco”.

L’importazione delle fave, illustra ancora il Transport Logistic Planner di Mto, “viene gestita principalmente da trader da cui le industrie dolciarie acquistano lotti di partite”. I container arrivano nei porti italiani con resa franco magazzino e franchigie elevate, giustificate dal fatto che i sacchi vengono scaricati a mano e che i contenitori vengono sottoposti a processi di fumigazione per eliminare gli insetti. “Introdurre una sola partita di merce infestata in magazzini di oltre 25 mila metri quadri sarebbe un vero disastro” prosegue Oliveri.

Dai porti italiani la merce si sposta quindi “via camion, corredata di documenti di transito doganale, verso i magazzini intermedi”. La rottura del carico – spiega ancora Olivieri – è giustificata dal fatto che, prima di proseguire il viaggio verso le destinazioni finali ovvero le cioccolaterie d’Italia, “le fave vengono pulite in appositi macchinari simili a tramogge che tolgono tutte le impurità presenti nei sacchi di iuta: pietre, foglie, spago, elementi ferrosi”. Poi, a seconda delle esigenze di ogni ricevitore, la “merce viene messa in big bag da una tonnellata, pallettizzata o trasportata fino alla fabbrica in cisterne”. Pronta quindi “per essere trasformata nel vostro cioccolatino preferito”.

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