Imprese femminili meno propense all’export (11%) di quelle dei colleghi maschi (19%)
Uno studio dell’Ocse, in collaborazione con Meta-Facebook, rivela maggiori difficoltà nell’accesso ai mercati internazionali, ma performance pari una volta superate le barriere iniziali
Le imprese guidate da donne nel 2022 hanno mostrato una minore propensione all’export (11%) di quelle guidate da uomini (19%) e quindi hanno avuto meno possibilità di godere dei vantaggi che solitamente sono connessi all’avere accesso ai mercati internazionali. Differenze si sono viste anche nelle importazioni, dove la quota di aziende femminili che si è avvalsa di approvvigionamenti esteri è stata del 11% contro il 15% di quelle a guida maschile.
Lo ha evidenziato il report Future of Business, elaborato dall’Ocse sulla base di dati forniti da Facebook e relativi a oltre 10mila aziende presenti sul portale (e attive nei paesi che fanno parte dell’organizzazione).
Secondo l’analisi, il divario nella propensione alle vendite sui mercati si può spiegare in parte con caratteristiche proprie delle imprese in questione. In altre parole, le donne tendono maggiormente a essere attive in realtà che offrono servizi (e non beni) e dalle dimensioni più contenute, due tratti che si associano a imprese di per sé poco votate all’export. Inoltre in genere le aziende femminili sono più giovani e complessivamente meno strutturate.
Circa un terzo di questo gap però non è ricollegabile a queste due variabili e quindi, suggerisce il report, è frutto di fattori di genere, ovvero conseguenza di condizionamenti sociali più o meno impliciti. Basti pensare che nell’avvio di una attività commerciale, le donne indichino tra gli obiettivi perseguiti la ricerca di un buon bilanciamento tra lavoro e vita familiare, una considerazione del tutto assente nei ragionamenti dei loro ‘colleghi’ maschi.
Pur con questa importante differenza all’origine, il report mostra però anche che, per le aziende guidate da donne non esistono poi differenze signifcative nelle esportazioni con quelle ‘maschili’ una volta superate le barriere iniziali. Più nel concreto: le quote riferibili alle vendite concluse nei mercati internazionali – per le aziende che sono effettivamente attive all’estero – è simile tra realtà guidate da donne e da uomini, così come lo è il numero di paesi verso i quali si esporta. Una differenza evidente riguarda invece il destinatario finale delle esportazioni, che per le imprese femminili è più spesso rappresentato da consumatori finali, anziché da altre imprese. Nel dettaglio, il 79% delle aziende a guda maschile conclude vendite estere ‘b2b’, mentre per le imprese femminili questa quota è del 51%.
Un ulteriore dato positivo evidenziato dall’analisi riguarda le vendite on line, spesso fondamentali per la presenza sui mercati internazionali. Il Covid-19, che ha spinto le imprese a sviluppare propri canali e-commerce, svela lo studio, lo ha fatto con maggior forza per quelle a guida femminile, che ora hanno sistemi di vendita on line nel 53% dei casi (contro il 43% del pre-pandemia), mentre quelle ‘maschili’ restano al 44% (dal 40% iniziale).
Guardando ai fattori che possono frenare l’accesso delle donne ai mercati esteri, secondo l’analisi di Ocse e Facebook c’è in particolare quello relativo alle risorse finanziarie. Il report mostra infatti che solo il 12% delle imprese femminili godedi un prestito bancario (contro il 20% delle aziende di imprenditori uomini) e che queste hanno il 50% di possibilità in più di vedersi rifiutare un finanziamento. Le imprese femminili tendono quindi maggiormente a cercare forme di finanza alternativa, uno degli ambiti su cui secondo Ocse bisognerebbe puntare per favorirne la presenza internazionale. Altre criticità indicate dalle stesse imprenditrici secondo lo studio riguardano la comprensione delle procedure doganali e delle regolamentazioni estere, un gap di conoscenza che potrebbe però essere colmato da azioni mirate delle agenzie nazionali di promozione delle esportazioni.
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