Green più digitale spingono l’export delle piccole imprese italiane
Per le aziende di medie dimensioni anche investire in uno solo dei due ambiti può bastare a sviluppare l’internazionalizzazione
Spina dorsale dell’economia italiana (con un giro di affari di oltre 1.000 miliardi di euro, il 40% del valore aggiunto nazionale e quasi 5,4 milioni di persone), le Pmi hanno anche un ruolo strategico nello sviluppo dell’export del nostro paese. Questo vale ancora di più se le aziende in questione hanno intrapreso un percorso di transizione green e digitale.
Il tema è stato affrontato nel report ‘Piccole, medie e più competitive: le Pmi italiane alla prova dell’export tra transizione sostenibile e digitale’, elaborato da Sace con The European House Ambrosetti in cui si evidenzia come la duplice transizione “aumenta la propensione all’export delle imprese”, soprattutto però nel caso di realtà di dimensioni più contenute.
In particolare nell’analisi sono citati i risultati di un’indagine condotta nel 2023 dal Centro Studi delle Camere di commercio Guglielmo Tagliacarne e Unioncamere su 4.200 imprese (tra i 5 e i 249 addetti), da cui emerge come nell’insieme le imprese che investono in digitalizzazione e sostenibilità ambientale siano anche le più propense ad aprirsi ai mercati internazionali.
Lo studio mostra infatti che circa la metà delle Pmi che investono in uno dei due ambiti esporta sui mercati esteri (il 46% tra quelle che investono solamente nel digitale; il 49% tra quelle che puntano solo nel green). Quando però le imprese investono su entrambi gli ambiti, la quota sale al 67%. Più nel dettaglio, la differenza si nota però andando a considerando separatamente le realtà di dimensioni più contenute.
Tra le aziende di medie dimensioni (50-249 addetti), la Duplice Transizione, si legge nel report, sortisce sì un effetto positivo, ma senza un significativo differenziale rispetto all’investire in una sola delle due. La quota di realtà esportatrici è pari infatti all’88% tra quelle che investono nei due ambiti o nella sola transizione green e all’83% tra quelle che investono nella sola transizione digitale. Più che l’abbinamento, insomma, è la scelta di puntare su uno qualunque di questi due fattori a spingere le medie imprese, che già godono di maggiori vantaggi legati alle economie di scala rispetto alle piccole, a vendere all’estero (la quota delle esportatrici scende infatti al 67% tra quelle che non hanno effettuato nessun investimento).
È invece nelle piccole imprese che l’effetto ‘Duplice Transizione’ fa maggiormente la differenza in termini di apertura ai mercati esteri. La percentuale delle esportatrici (pari solo al 22% tra le piccole imprese che non investono), sale infatti circa al 30% tra quelle che puntano su una sola transizione (29% per quella green e 33% per quella digitale), ma balza al 42% tra quelle che puntano su entrambi gli ambiti, mostra quindi lo studio.
Se l’analisi mostra quindi che la duplice transizione funge effettivamente da elemento propulsore all’esportazione, resta da capire perché una certa quota (il 28% delle Pmi) ha deciso di non investirvi.
Secondo Sace, relativamente ai mancati investimenti in transizione digitale la ragione va cercata innanzitutto nelle barriere culturali presenti nelle stesse aziende (ovvero la scarsa conoscenza degli effetti positivi delle tecnologie 4.0 sulla competitività o la mancanza di interesse da parte del management). Solo dopo vengono le barriere economiche date da scarsità di risorse, problemi di accesso al credito e tassi di interesse elevati. Seguono ancora l’eccesso della burocrazia (e la scarsa informazione sugli incentivi), indicata come limite da 12 imprese su 100, la difficoltà a trovare la migliore tecnologia 4.0 su cui investire (9%) mentre l’8% segnala una scarsità di competenze (intesa come mancanza di digital skill e difficoltà nel reperire professionalità con adeguate competenze).
Per quel che riguarda la transizione green, le prime barriere (41% delle imprese) sono economiche. Al secondo posto (27%) quelle culturali, seguite da quelle burocratiche (16%) e successivamente dalla scarsa disponibilità di materiali o componenti green all’interno della filiera di riferimento (9% delle imprese). La mancanza di competenze, invece, è ritenuta un vincolo meno significativo.
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