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Tutti i rischi delle rese di spedizione ex works secondo l’Agenzia delle Dogane

Il caricamento del mezzo e la ricerca di prove dell’avvenuta esportazione sono alcuni degli ambiti che riservano più insidie per i venditori

di REDAZIONE SUPPLY CHAIN ITALY
13 Marzo 2024
Stampa

Milano – La resa ex works (o franco fabbrica) viene spesso scelta dalle aziende che esportano perché ritenuta la meno costosa e meno rischiosa per il venditore. Se la prima parte dell’affermazione può considerarsi grossomodo corretta, la seconda è stata ampiamente messa in dubbio nel corso del convegno “Franco fabbrica e made in Italy: problemi e soluzioni”, organizzato da Aice e dedicato specificamente a questo tema. A fornire diversi elementi atti a contestare questa convinzione è stata innanzitutto una presentazione elaborata da Enzo Spoto, funzionario dell’Agenzia delle Dogane, e illustrata in sua vece da Raffaella Seveso di Aice, nella quale sono state elencate le criticità che si verificano più comunemente.

L’insidia più ricorrente, è emerso, riguarda la fase del caricamento della merce, operazione che spesso si verifica nel magazzino del venditore. Sulla carta, questa non dovrebbe essere svolta dal venditore ma nemmeno può essere effettuata dal camionista che ritira la stessa merce (il quale non potrebbe nemmeno utilizzare i mezzi – muletti o altro – presenti in loco). Nella pratica la prima possibilità è quella che si concretizza più spesso, esponendo il venditore ai rischi connessi ai danni provocati da un caricamento inidoneo, in assenza però della relativa copertura assicurativa. Una soluzione-tampone in questo senso – cioè per chi volesse comunque continuare a utilizzare rese franco fabbrica – secondo la presentazione di Spoto potrebbe essere quella di inserirvi la precisazione ‘loaded’ (o ‘caricato’), in modo da far rientrare l’attività di caricamento nella competenza del venditore (e assicurarle quindi anche copertura assicurativa).

Considerando che la resa ex works fa sì che il vettore non abbia rapporti con il venditore, altre criticità tipiche evidenziate riguardano poi la documentazione relativa al trasporto. In sostanza, l’autista potrebbe non comprendere la rilevanza di alcuni documenti o disinteressarsi rispetto alla loro sorte, con conseguenze ultime in termini di maggiori spese per il venditore. Un’ulteriore insidia risulta poi dalla compilazione delle lettere di vettura internazionale (Crm), nelle quali il venditore a volte, pur non essendo il mittente della spedizione (gestita infatti dall’acquirente), figura comunque come “mittente per conto del compratore”, con una formula in grado di creare ambiguità.

Tra gli aspetti più controversi, ci sono poi quello dell’imponibilità Iva e della prova all’esportazione. Riguardo quest’ultimo, ha spiegato Seveso, il venditore che cede la sua merce all’estero (fuori dalla Ue o al suo interno, tramite cessione intracomunitarie) è tenuto a dover dimostrare la fuoriuscita della merce dai confini dello Stato. Cosa già di per sé complicata, dato che non ha rapporti diretti con il vettore, ma che può diventare ancora più critica considerando che gli accertamenti delle Dogane (con la richiesta di prove che documentino l’avvenuta esportazione) possono arrivare a distanza di anni dallo svolgimento dell’operazione. Reperire informazioni e documentazione dal cliente estero in quel caso potrà essere ancora più difficile (perché la società magari sarà stata chiusa, o si saranno interrotti i rapporti commerciali e non avrà interesse a essere collaborativo e così via).

Casistiche che, secondo quanto riportato da Seveso, dimostrano ancora una volta come le rese franco fabbrica siano ideali solo in ambito nazionale, mentre diventino fonte di problemi non solo nelle vendite extra Ue ma anche nelle cessioni intracomunitarie. Le stesse Dogane, ha aggiunto, sono “molto critiche” sulle vendite effettuate con rese franco fabbrica perché generano difficoltà anche per loro, non consentendogli di avere un pieno controllo sulle procedure.

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